La fiaba

Carlo Lorenzini, più noto con lo pseudonimo di Collodi (dal nome del paese natale della madre), nasce a Firenze il 24 novembre 1826 da madre maestra elementare e papàcuoco. Inizia la carriera di impiegato e di giornalista.
Nel 1848, partecipa dapprima come volontario e poi come arruolato alla prima Guerra d’Indipendenza nelle file dei mazziniani. Nel 1856 scrive il libro Un romanzo in vapore a cui fa seguito Il viaggio per l’Italia di Giannettino. Scrive in seguito vari libri, ottenendo i migliori risultati nel campo della letteratura per l’infanzia.
Collodi collabora, fino al 1875, a numerosi giornali; scrive pure romanzi e drammi teatrali, nessuno dei quali però di particolare valore creativo.
Il primo testo dedicato all’infanzia è del 1876: I racconti delle fate, traduzioni di fiabe francesi commissionate dalla libreria editrice Paggi. Da allora, Collodi si cimenta nel genere della letteratura infantile, con la realizzazione di una serie di testi scolastici che lo rendono un benemerito dell’istruzione pubblica nell’Italia appena unita.
La vera notorietà di Collodi arriva, però, con la pubblicazione del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Pubblicato inizialmente a puntate, a partire dal 7 luglio 1881, sul “Giornale per i bambini” di Ferdinando Martini, con il titolo di Storia di un burattino, esce integralmente nel 1883 sempre con l’editore Felice Paggi di Firenze.
Senza conoscere il successo straordinario della sua opera, Carlo Collodi muore il 26 ottobre 1890 a Firenze.

La storia è arcinota, segno inoppugnabile di una duratura popolarità, che ha fatto di quest’opera un classico della letteratura, e non solo per l’infanzia. Nelle vivaci peripezie del celebre burattino è possibile riconoscere il ripetersi di uno schema fisso, che richiama uno dei movimenti tipici del romanzo di formazione: messo alla prova, vuoi dal Gatto e la Volpe, vuoi dall’amico tentatore Lucignolo, Pinocchio cede, trasgredisce le regole e di conseguenza subisce una degradazione, il cui punto più basso sarà la trasformazione in asino, di apuleiana memoria; segue quindi il pentimento e la riabilitazione fisica e morale del personaggio, fino all’esito finale, che vede il burattino di legno trasformarsi definitivamente in un ragazzo in carne ed ossa. È un modello di racconto elementare, facile da mandare a memoria e ripetibile come una filastrocca,tanto semplice e lineare da permettere di spostare i diversi blocchi narrativi all’interno della favola senza che l’economia generale ne venga disturbata più di tanto, senza stravolgere o perdere il senso: l’importante, il “succo” della storia lo si afferra comunque, ed è che per diventare veri uomini, per abbandonare il nimbo dell’infanzia dove l’individuo è come un burattino in balìa degli eventi, occorre comportarsi bene, ossia rispettare le norme della morale comune. Osserva Paul Hazard: «Se si dovessero riassumere i precetti del libro, ecco ciò che si avrebbe: vi è un giustizia immanente che ricompensa il bene e punisce il male; e poiché il bene è vantaggioso, bisogna preferirlo». Una sorta di opportunismo morale, insomma, che ben rispecchia la temperie politica e sociale dell’Italia post-unitaria,preoccupata di fondare uno statuto etico e ideologico buono per tutti i cittadini, quei neo-italiani che ancora non avevano un’idea di patria o di società in cui potersi riconoscere.

Ma Pinocchio è uno di quei casi in cui la vitalità dell’opera supera di gran lunga il progetto narrativo che la sottende: nessuno ricorda il simpatico pupazzo di legno come «latore di valori morali» o come simbolo del bene che trionfa sul male. In realtà, se questa favola continua ad essere letta in tutto il mondo, dopo centoventi anni, è per la simpatia senza riserve suscitata dal suo protagonista, così vicino, nelle sue debolezze e incoerenze, ai lettori piccoli e grandi: diciamo la verità, la trasformazione in ragazzino vero lascia un po’ l’amaro in bocca… Ci immaginiamo il suo futuro di figlio e scolaro modello, così grigio e monotono se paragonato alle mirabolanti peripezie della sua precedente vita burattinesca.Un cambiamento che diventa l’emblema malinconico del passaggio dalla magica libertà infantile ai doveri e alle responsabilità della vita adulta: il principio di realtà che prevale sul principio di piacere, potremmo dire con Freud.